mercoledì 16 febbraio 2011

L' Altro da Borges (autobiografia troppo sincera)

Questo post avrei potuto evitarmelo ed evitarvelo.
Ma ci sono momenti nella vita in cui ricordare e soffrire d'alcuni ricordi è paradossalmente curativo.
Ispirato da L'altro de Il libro di sabbia di Borges, all'epoca non fu più d' un esercizio impostomi da superiori, nel quale come sempre ho però tentato di mettere il meglio che sapessi fare, con critica lucida di me, dei miei difetti, esaltando la differenza che può fare un semplice PUNTO DI VISTA. Le stesse cose da angolazioni differenti diventano inferni o paradisi.
Ora, questa è roba vecchia: credo risalga al 2006 o giù di lì.
Ma più che mai in questo momento della mia vita mi ritrovo nella situazione descritta.
Mi aiuta a tenere bene a mente che uno il destino se lo fa, e che se non si prendono le giuste scelte quando è il giusto momento, ci si  può davvero trovare ad essere una altro sè ucronico derelitto, indurito e compiaciuto della sua inettitudine, troppo pigro per reagire.

Mettetemi al patibolo quando smetterò d'ascoltare e di vedere intenzionalmente.
Sparatemi quando smetterò d'imparare o d'avere il coraggio di farlo.

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Libera vestizione di panni non miei, ma graziosamente adattati.



  Dopo quasi cinque anni dal suo impianto nel mio foro vertebrale all'altezza della prominente, il biomodem alcune notti mi infastidisce ancora.
Mi crea disturbi del sonno, incubi, visioni, allucinazioni e alterazioni percettive inizialmente gestibili che invece col passar del tempo riesco sempre meno a controllare.
Nelle ultime due settimane i miei ingressi in Overnet sono stati assolutamente involontari e  perciò pericolosi: sono avvenuti nel sonno i primi cinque, e addirittura in stato di veglia gli altri due.
Ora, nonostante i controlli incrociati dei Multiserver, come da sempre hacker e pirati ne combinano di cotte e di crude; da qualche anno c'è della gente che entra in Overnet e sparisce, altri il cui sistema nervoso è direttamente infettato dai nuovi virus Interbiocoder. Pericoloso davvero, non si scherza.
  Molto più comodo e sicuro quando il computer era semplicemente nello schermo, e il modem era un parallelepipedo di plastica che si accendeva solo quando lo decidevo io, e c'era ancora internet e i virus si eliminavano con dei programmi.

  Avevo quarantacinque anni quando il Nuovo Governo Unificato propose il sogno di Overnet. E all'epoca un'utopia sembrava, piena di “bei proponimenti e vantaggi e convenienza per l'utente”, come faceva sapere il segretario generale addetto al progetto. Nessuno ci badava, inizalmente.
Ricordo il passaggio di un libro letto quand'ero giovane, che spiegava come certe popolazioni primitive non capivano come facessero a starci degli omini così piccoli dentro quella scatola che noi civilizzati chiamavamo televisione.
Così eravamo noi, in quello sciocco, automatico, grigio 2028, increduli e disarmati (ma altrettanto convinti della sua impossibilità d'estistenza), di fronte a questo miraggio telematico.
  La verità è che nel mondo che l'uomo aveva da sé stesso forgiato nell'arco di lunghi secoli c'era rimasto ben poco da amare. L'intera umanità da diversi anni era solo un disordinato assembramento di corpi atrofizzati, di emozioni indotte chimicamente o rigettate in violenti exploit omicidi.
La droga non bastava più ad acquietare gli animi, nemmeno gli ultimi ritrovati sintetici.
La religione era certo ancora l'oppio dei popoli, ma l'oppio in realtà non se lo ricordava nessuno, nemmeno come era fatto.
C'era bisogno di nuovi mezzi di controllo sulla gente.
Comunque sia, nonostante nessuno lo pensasse possibile, nel giro di due anni furono costruiti software e hardware delle due intelligenze artificiali che costituivano Overnet, e Internet fu smantellato l'anno successivo con grande entusiasmo di governo e popolazione. Iniziarono i test sugli esseri umani. Nei quattro mesi successivi l'intera umanità si occupò solamente di farsi impiantare quel maledetto biomodem nella spina dorsale, per provare l'ebbrezza di una realtà simulata con perfezione assoluta. Overnet era versatile e veloce: a parte l'ordinaria navigazione, consentiva l'ingresso in mondi virtuali con un corpo virtuale, ma sensazioni, dati e altri utenti incontrati erano reali.
I problemi vennero fuori lentamente, subdoli e striscianti, solo dopo un anno dall'impianto.
Chi aveva avuto crisi di rigetto, chi non riusciva più ad uscire da Overnet, virus mortali e trappole virtuali che friggevano la  mielina  e tostavano il tessuto corticale del cervello.
C'era della gente che impazziva, dell'altra che veniva letteralmente programmata.

 Ma il Nuovo Governo Unificato sosteneva che i problemi di adattamento all'impianto ce l'avevano solo chi, come me, aveva ricevuto il biomodem oltre i vent'anni di età. Diceva che il cervello e quant'altro non avevano avuto il tempo di crescere e modificarsi per accogliere spontaneamente il chip. Perciò si cominciò ad impiantarlo direttamente alla nascita. E in effetti i bambini che l'avevano dalla nascita facevano molta meno fatica a controllarlo. Il suo difetto principale -benché credo pianificato fin dall'inizio- era la connessione.
Il biomodem era infatti stato concepito in modo che i comandi fossero impartiti al chip attraverso forme pensiero. Bastava pensare di collegarsi e si era dentro, ma funzionava solo con un pensiero volontario e mantenuto per almeno venti secondi. In quei venti secondi le intelligenze artificiali vagliavano la richiesta d'ingresso e l'identità dell'utente, la quale era confrontata con la banca del DNA mondiale. Cloni pertanto non ne potevano esistere: ogni codice genetico era una persona reale e conseguentemente virtuale solamente. Non c'era possibilità d'errore.
Però le due intelligenze artificiali avrebbero potuto, nel tempo, imparare dalla grande quantità di dati in loro possesso, modificarli ed addirittura creare mondi e dimensioni parallele; inoltre avrebbero potuto controllare autonomamente ingressi, uscite e permanenze degli utenti.
Perchè questo era in loro potere, e nonostante ogni minima precauzione fosse stata prudentemente adottata per evitare che succedesse, ho l'impressione che adesso, nel 2036, le macchine abbiano già rapito le coscienze e le memorie di tutti e stiano mediante quelle informazioni costruendo il loro mondo. Vogliono un corpo. Vogliono la carne, vogliono sentire dolore, piacere, amore, odio, il calore del sole e il freddo del vento. Lo vogliono fare loro, perchè l'uomo da tempo non lo fa più. 

Da quanto me ne sono accorta?
Da brava miscredente l'ho sempre sospettato, ma è stato un singolare e inverosimile incontro avuto questa notte, pochi minuti fa, a dare fondamento alle mie tesi.

Saranno state all'incirca le tre del mattino, continuavo insonne a rigirarmi nel cubicolo pensando a quanto fossero odiosi quelle specie di loculi funerari che già da quindici anni circa si utilizzavano al posto dei letti, quando d'improvviso, dentro la “scatola del sonno” (mi piace di chiamarlo così, il cubicolo),  si manifestò un flash di luce bianca intensissimo.
Avevo gli occhi chiusi e mi accecò comunque. Premetti il pulsante di espulsione dal cubicolo, e appena fuori, seduta sul basculante, cercai di recuperare la vista e soprattutto di capire cosa stesse succedendo.
Ma la vista non tornava, così mi ridussi a guardare una confusione di minuscoli puntini bianchi e neri in perpetuo movimento. Poi mi accorsi di un ronzio quasi impercettibile che proveniva da un punto indefinito della stanza. Ebbi l'impressione di trovarmi di fronte ad un enorme monitor televisivo...il ronzio cresceva, e finalmente con orrore capii che ad emetterlo erano proprio i puntini.
Con orrore, perchè questo era chiaramente un ingresso ad Overnet involontario.
E infatti non feci in tempo a finire di formulare il pensiero che con una nitidezza insolita mi apparve attorno la hall di un albergo. Per qualche secondo mi guardai intorno per capire dove potevo essere, e perchè.
Overnet è il presente, nel senso che non prevede nella fruizione della realtà virtuale altro tempo che non sia il presente, l'oggi.
E quanto vedevo non era affatto il presente: banconi di legno, lampadari a luce elettrica, divani e poltrone di pelle, tappeti. Cose che non si usano da tempo, in materiali decisamente obsoleti. Tutto di foggia antiquata, abiti e persone dentro gli abiti pure. Sembrava di aver fatto un salto indietro nel tempo di trent'anni.


  Dio, che non è affatto sciocco anche se estremamente vanesio, ebbe cura di fare in modo che ci fosse un filtro tra il suo pensiero e il prodotto fisico di quel pensiero: pose tra i due il Verbo. L'uomo, vanesio più del dio ma irrimediabilmente stupido, si tolse quella opportunità volendo superare il suo creatore -a lui ci son voluti pensiero e Verbo, a noi uomini basta il pensiero- e Overnet ne è la più grande attestazione: non riesco a smettere di ripetermi che se non avessi fatto quel dannato pensiero non sarebbe successo niente.
E invece, inaspettato e fatale come tante cose nella vera vita umana, quasi per scherzo fece capolino fra tutti gli altri, sorridendo candido alla mia condanna.

“Trent'anni fa avevo vent'anni. Questi che vedo sono i miei vent'anni”.

Banalmente mi urtò addosso sulla schiena. Altrettanto banalmente, come se fosse stato tutto normale, mi si pose di fronte per chiedermi scusa.
Fu allora che capii quanto inumano e perverso si fosse fatto l'uomo nel tempo, e questa coscienza si accompagnò ad un lungo brivido gelido e ad un'altra certezza, non meno sconvolgente: le macchine avevano cominciato a produrre un loro senso delle cose. Avevano cominciato a fabbricare un nuovo mondo per gli uomini, fatto delle loro memorie e speranze, un mondo fittizio cui collegare tutti prima o poi. Stavano creando mondi paralleli e ucronici dove fondevano a loro piacimento le vite passate e presenti di chi vi entrava.
La ragazza che avevo di fronte, senza ombra di dubbio, ero io a vent'anni.
Mi guardai chiedermi scusa per un istante che mi sembrò un' eternità.
I tatuaggi sui polsi, il modo di parlare, gli occhi, gli abiti...ero proprio io.
E lei si accorse di come la guardavo, e ricambiò la cosa, smettendo di parlare.
Aveva capito chi ero, ma come me non poteva crederci. Fece esattamente come avrei fatto io a vent'anni: inclinò la testa verso sinistra increspando le sopracciglia, e posta la mano destra sul relativo fianco mi disse:

-”Ma ci conosciamo? Lei ha un'aria decisamente familiare”.
-”Non lo so. Cioè, credo di sì ma effettivamente non lo so. Dove siamo?”

Mi guarda un secondo allargando le narici.

-”Secondo lei dove siamo?”

-”Venezia” risposi prontamente. 

Non poteva essere che Venezia. Cercai dei riscontri nella hall: un leone di San Marco campeggiava su un muro laterale al bancone principale.
-”Mi spiace di esserle venuta addosso, cammino senza mai guardare dove vado. Brutto vizio. Pensi che l'altro giorno mentre camminavo in campo Santa Margherita...”

La interruppi brutalmente. Sapevo cosa stava per dire:

-”... è inciampata su una lastra di trachite e ha buttato per aria un banco del pesce. Un sacco di calamari per terra.”

-”Esatto. Ma lei come fa a saperlo? E' successo anche a lei?”
-”Già. Avevo più o meno la tua età.”

Sorrido, e lei mi sorride allo stesso modo ma con una spensieratezza persa da tempo, per me. Mi allunga la mano mentre recita le solite frasi di congedo.
Mentre le porgo la mia, lei abbassa lo sguardo e si blocca.
Con la delicatezza che ho avuto fin da bambina nel toccare le altre persone, mi prende la mano destra e controlla le lettere ebraiche che ha anche lei tatuate all'interno del polso.
Quasi pregando le mormora lenta e incredula:

-”Hè, Yod e Ayn. Nell'altro polso ha Beith, Zain e Shin.”
 

Annuisco solamente. La vedo cercare il foro del piercing dove lei l'ha ancora, e le cicatrici sul braccio sinistro, e quel segno sulla tempia destra.
Le si rabbuiano gli occhi. Se per me poteva essere difficile accettare quel paradosso cronodimensionale, figuriamoci per lei che avrebbe vissuto l'avvento di Overnet e  le sue meraviglie solo tra venticinque anni.

-”Sono proprio io.”
Glielo dico con dolcezza, e so bene perchè: a vent'anni certe emozioni mi spezzavano. Invecchiando ho imparato a farci caso come né più né meno a una mosca sul muro.
Il tempo è un ladro formidabile.
Ecco. La ragazza è atterrita, e la vedo fare una scena conosciuta da sempre: allarga le spalle, inspira, e con modo spiccio e arrogante abbozza un gesto secco e mi fa:

-”Poche palle. Meno parole più fatti. Voglio le prove.”

Sapevo che mi parlava così perchè aveva capito che ero veramente io. Normalmente non l'avrebbe fatto.
Mi sedetti su una poltroncina, pronta a snocciolare lunghe sequenze di dati.

-Dunque. Hai abitato fino ai diciannove anni in Veneto, poi ti sei trasferita a Bologna, dove vivi ora. Hai una gatta bianca a macchie grigie che è uguale uguale ad un gatto che hai avuto precedentemente molto amato, che si chiamava Benito. Hai odiato per mesi il pavimento del tuo appartamento bolognese perchè non riuscivi ad abituarti alle piastrelle bianche con le fughe nere. Nella tua stanza, sulla prima mensola a destra della porta ci sono vari trattati di magia, occulto ed esoterismo, di cui ti interessi da sempre. La narrativa sta sulla mensola appena sotto; Poe e Lovecraft stanno sempre al capo più vicino perchè sono quelli che tendi a rileggere più spesso. I saggi sull'ipnosi, Castaneda e i libri vecchi, che ti piace comprare di tanto in tanto, sono invece sulla libreria bianca, assieme ad altri di poesia. Quella d'angolo invece ha solo testi che parlano d'arte.
Devo continuare?”

Mi guarda perplessa.

-”Non sto capendo quel che succede. Se tu sei me, e io so di essere io e di avere vent'anni, perchè tu sei me e di anni ne hai molti di più? Sto sognando? Soprattutto: come faccio ad essere due persone in corpi diversi?”

-”Non credo tu stia sognando -me lo ricorderei ancora un sogno così, è certo- e d'altronde non può essere qualcosa di reale perchè non ricordo neanche di aver mai incontrato me stessa  a cinquant'anni quando avevo la tua età.”
-”Insomma questa è una sorta di dimensione parallela.”
-”Credo di sì. Fra qualche anno saprai esattamente come è andata.”

Mi sorride, un poco più tranquilla. Eravamo identiche in tutto e per tutto, a parte ovviamente i segni dell'età sul mio viso e qualche acciacco, eppure ci conoscevamo relativamente. Il mondo e il tempo sarebbero cambiati e mi avrebbero cambiata  tanto da farmi dimenticare molte, molte cose...

-”Te la ricordi Si china il giorno?”

-”Certo” -aveva intuito il mio pensiero- “...dunque dunque...ah ecco sì...T'ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore di carne
.”

-”...così lieve il mio cuore d'uragano.
-”Dalla tua matrice io salgo immemore e piango. Camminano angeli, muti con me; non hanno respiro le cose; in pietra mutata ogni voce, silenzio di cieli sepolti. Il tuo primo uomo non sa, ma dolora.”

Ci fissiamo per qualche secondo. Inevitabile. Sorrido per la tenerezza che mi fa vedermi così, a credere ancora in cose che per me ormai erano solo fantasmi. Alla notte mi faceva commuovere, a quell'età. Ora non più.

-”Continuo a scrivere poesie?” mi chiede.

-”Sì. Continui a fare tutte quelle cose che hai sempre fatto. Ma adesso sono diverse. Continui a fare musica, ma la tua ricerca musicale si è cristallizzata nell'aridità del sound design, continui a dipingere ma con sempre crescente frustrazione e rabbia, scrivi scarne poesiole che dell'amore se ne sbattono altamente, anzi.”

Mi guarda senza capire.

-”Pensavo che non avrei mai cambiato idea su determinati valori.”

-”E' questo il guaio: PENSARE. Fra qualche anno i nostri governi faranno in modo di poter controllare pure il pensiero. La vita ti cambia.
Il mondo si presenterà in casa tua come uno straccione pulcioso, tu lo farai accomodare per pura compassione, e lui infetterà tutta la tua casa col suo sozzume.
Crederai all'Umanità per molto tempo con l'assoluta Fede dell'orante sul suo inginocchiatoio.
Dedicherai notti intere e ogni istante diurno ad amori brucianti e impossibili, ridendo e piangendo insieme per uomini che non ti sapranno mai, per loro volontà o capriccio.
Ti infiammerai per idee e colori, ti batterai per insulsi ideali.
Sosterrai etiche frivole per il solo gusto (ma lo capirai dopo) di esserne l'antitesi.
Cercherai senza trovare. Troverai cose che non cercavi affatto.
Vivrai, insomma.
Tutto qui, molto ordinario, molto banale. Ah, sì: non riuscirai mai a smettere di fumare.
Io almeno fumo ancora.”

Le dissi tutto questo con lentezza e dimentica dei suoi vent'anni. Parlavo a me stessa, ma non ero io. Quanta franchezza sprecata; lei stava lì a guardarmi smarrita.

-”Concordo con pensare uguale guai, tuttavia è dal pensiero che nasce tutto. Per il resto non vedo perchè tu debba essere così insofferente nei confronti della vita. Non mi sembra andrà malaccio, tutto sommato. Voglio dire, visto che un essere umano non può prescindere da ciò che è, è normale che viva la vita nelle condizioni di uomo, perciò sottoposto ai limiti stessi della sua esistenza...”

-”Basta, ti prego...non venire a fare questi ragionamenti a me. Li ho sepolti da una vita. Sono perfettamente inutili, e prima te ne renderai conto meglio sarà.”

  In un solo istante avevo dimenticato tutta la gentilezza.
Mi infastidiva la pazienza e la sollecitudine con cui sosteneva le sue idee, il suo candore assoluto e la sua insopportabile tendenza illuminista all'ottimismo.

Una ragazzetta illusa, ecco cos'ero a vent'anni.

Credevo ai valori, credevo all'amore, credevo ai sogni.
Avevo una visione troppo lirica e intensa, ridondante e patetica di ogni singola Cosa che costituisse l'esistere. Tutto aveva una sacralità che andava rispettata.
E, soprattutto, ci credevo.
Guardavo i miei occhi sinceri e preoccupati di trent'anni prima, e provavo rabbia.

Bisognerebbe vivere al contrario. Nascere vecchi e morire giovani, in una meravigliosa progressione verso l'alleggerimento d'animo e di sentimenti...Bisognerebbe nascere neri sporchi di morchia, e morire bianchi d'alabastro...
Questa sarebbe la via ideale per essere accolti in un Paradiso che funzioni bene.

Invece quell'essere meraviglioso e pulito che mi stava davanti ero io e non lo ero più, e  invidiavo quello che lei era e io non avevo mai saputo di essere, mi faceva morire di rabbia l' aver perso tempo ad aspettare di crescere per vivere, quando invece avrei dovuto succhiare la vita a lunghe sorsate direttamente dalla sua fonte, mordere il tempo come solo i ventenni possono.
Vedevo in lei la più perfetta delle imperfezioni tra quelle che ha l'uomo a sua disposizione, ma di cui non è cosciente finchè non la perde: la giovinezza.
Ma non quella della carne.
Quella che rende il mondo un enorme parco d'intrattenimento,
e le persone compagne di gioco. Quella che in ogni angolo c'è un'occasione.
Quella che accende i tramonti con luci al neon e fabbrica ogni notte un nuovo vetro multicolore per fare l'alba. Quella che trasforma la notte in un immensa licenziosa alcova di seta nera, culla d'ogni innocente perversità.

Perso tutto. Avevo perso tutto, senza sapere d'averlo stretto fra le dita.

Come potevo non odiarla?

E lei, che seppure giovane era pur sempre me stessa, per una sorta d'empatia capì ciò che stavo provando. Forse, per un'istante, i miei occhi d'oggi sono stati capaci d' essere sinceri un'ultima volta, dopo tanto che avevano imparato a nascondere tutto.
Non potevamo mentire l'un l'altra. Non era stato un incontro piacevole per nessuna della due: lei non si capacitava di ciò che sarebbe diventata, io invidiavo follemente quello che lei era e non aveva coscienza d'essere.

Così feci l'unica cosa sensata da farsi. Mi alzai e sorridendole le chiesi il coltello a serramanico che aveva in tasca. Non si stupì alla mia richiesta.

-”Te lo ricordi eh? Il vecchio coltello di papà.”

-”In realtà me lo ricordavo con colori molto più vivi. Ma pazienza, servirà comunque allo scopo.”
-”Cosa devi fare?”

Mentre le facevo un gesto che io e lei sapevamo significare “ora vedi” aprivo il coltello e lo portavo all'altezza della base del collo, lì dove iniziano le vertebre cervicali.

Sto dettando queste parole allo script generator. Mi resta ancora qualche minuto. Mi sono dimenticata di aggiungere alla descrizione del biomodem la più inquietante delle sue caratteristiche: ossia una piccola linguetta metallica, inserita sottopelle, che può essere raggiunta mediante una piccolissima incisione. Niente di doloroso. Una volta strappata la linguetta il biomodem si azzera e si spegne entro venti minuti. Con lo spegnimento, com'è logico, sopravviene la morte. Un piccolo cavillo assicurativo che il governo ha voluto avere sui fruitori di Overnet. In caso di pericolo, li si può riprogrammare o semplicemente uccidere se commettono certi crimini.

Il mio mondo d'oggi non era un bel mondo.
Non avevo neppure la certezza fosse del tutto reale.

Non ne valeva la pena, dopo quest'incontro. Non avevo niente per cui valesse la pena tornare. Non avevo niente da amare. Non sapevo né quando né come né se sarei riuscita a tornare alla vita reale, sapevo comunque che non l'avrei più sopportata.

Mi guardava incuriosita mentre praticavo l'incisione. Strappai la linguetta e gliela donai. Sopra c'erano la mia data di nascita, la data di consegna del biomodem (22 aprile 2031)
e il mio codice genetico.

Non poteva capire cosa significava per me (e per lei) quello che avevo appena fatto, né glielo volli spiegare. Mi congedai con poca grazia, ma con un senso di libertà nel petto.

Volevo dettare al programma questa cosa prima che i miei venti ultimi minuti di vita finissero. Non pensavo che venti minuti potessero durare tanto...
Non so chi la potrà leggere e l'eventuale sua utilità, ma va bene lo stesso... avrei voluto dipingerla, ma il paint generator non dà soddisfazione.
Bei tempi, quelli del pennello.

C'è qualcosa che mi si muove dentro, come un uccello maestoso in una gabbia troppo angusta: sfiora appena le pareti della mia anima, pigola piano, un po' impaurito.

Da quanto tempo non ricordavo una sensazione come questa...
....anni fa l'avrei chiamata nostalgia.


Che tristezza il mio cuore di carne.
 


 

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