domenica 4 maggio 2025

Mesquiza

Guarda la campagna.

La guarda.

La sente scorrere sotto di sé, sotto i suoi occhi.

Sente le radici da sotto i suoi piedi allungarsi, sottili, come piccole antenne biologiche, cercare la terra.


La terra bagnata, la terra che è casa.

Sente il fresco velo dell’umidità dell’erba solleticare i suoi nuovi pedicelli ambulacrali.

Una stella marina terrestre.


Col mento appoggiato al palmo, guardava fuori dal finestrino, completamente assente al treno che la ospitava e totalmente assorbita dall’essenza della terra.

Persino dentro la cabina pressurizzata poteva sentirne l’odore muschiato, verde, selvatico e dolce.

Terra che mai s’ammansisce, generosa come una madre, giumenta d’ogni capriccio dell’uomo.


Cercava di carpire il senso profondo del suo ultimo pensiero, che aveva accuratamente costruito partendo da un nulla, un minuscolo nulla: giocando a Go con la logica ne aveva estratto un succo purissimo, eppure tanto astratto da non riuscire a verbalizzarlo.

Ma la terra stava lì, e aveva cominciato a chiamarla.


Campagna, fitte righe orizzontali, dischi d’albero e margini frastagliati.

Ritmo pittorico continuo, infinito, ipnotico.

Eppure ci deve essere un segreto, un segreto da poter carpire. Da custodire”.


Un segreto di cui farsi una collana di saperi da intrecciare con tutto il resto, per dare senso, ordine.

Un minimo comune multiplo, la matrice del frattale.


Dove si perde, dove si perde, dove va questa donna assorta, con le radici aeree a cercare la sua madre primigenia, con la testa tanto in alto da sentire il primo freddo siderale sulla fronte”.

E’ che aveva imparato che tutto è appiglio in tempi d’alluvione.

Tutto serve.

Anche quel velo argenteo che le copriva gli occhi e il cuore.

Quel velo sottile che impediva l’osmosi, che schiacciava il respiro, che toglieva lucentezza alle cose.


Ma aveva imparato a ridere e a sorridere anche attraverso esso.


Alle volte pensava che potesse essere una perversa forma di autodifesa.

Sapeva che ogni cosa del suo sé aveva un compito, perciò, col tempo, invece di censurarsi, ascoltava ogni voce – sì, ogni voce, a rischio di diventare schizofrenica -

ma ogni voce doveva potersi esprimere, perché sentiva d’avere in sé ben di più della summa di se stessa.


Forse, e dico forse, aveva qualcosa di divino, ereditato dal Padre. O dalla Madre.

Se esiste un Dio.


Sicchè abbracciava in sé tutto quello che poteva e il suo contrario, perché dei dualismi le interessavano le contraddizioni, delle idiosincrasie la capacità di allargare il sensibile; sapeva che è nel non detto, nel non visto, nel non ascoltato, in ciò che si rifiuta, che stanno spesso le più piccole, palpitanti verità.


Non si scappa, non si fugge.

Non per eroismo, ma per sete di conoscenza.


Cosa c’è oltre, cosa viene dopo. Cosa c’è qui sotto. Cosa c’è dietro.

Avesse potuto scomporre ogni parte dell’esperibile in un ipercubo l’avrebbe fatto.

Ma ahimè le sue eredità divine si fermavano alla mera ontologia.


Si era fatta sera, la campagna era diventata grigia come il fumo della Londra industriale, e il cielo infinito blu come il lapislazzuli di Babilonia.

Qualche timida stella cominciava a tremare nella propria luce, e l’orizzonte si faceva via via più confuso.

Il processo di estensione non era terminato: nel seguire il filo dei suoi pensieri, sempre più rarefatto, aveva perso il contatto con la realtà.

Ma ora che aveva visto la sera, era ritornata per un attimo al tangibile.

E diamine, si sentiva strana.

Si sentiva improvvisamente troppo piccola per il sedile, e le sembrava di sbattere la testa sul soffitto della cabina quando il treno sobbalzava leggermente.


Muovendo solo gli occhi, si guardò intorno: era sola.


Aveva la sensazione di non riuscire a percepire completamente il suo corpo, né riusciva a muovere la testa agevolmente.

Pensò che forse avendo mantenuto troppo a lungo la posizione in cui era seduta, probabilmente il corpo s’era intorpidito e aveva perso sensibilità.

Non riusciva a muovere le braccia né le gambe.

Solo gli occhi.

Sforzandosi molto riusciva a girare la testa di pochissimo, e con un certo dolore.


In realtà la cosa non la preoccupava granchè, la sua attenzione era comunque assorbita altrove, e cioè nella sua testa.

Si rimise a guardare la campagna.


Si era da sempre considerata figlia della campagna e del mare, come d’altronde erano le origini dei suoi genitori: il padre dalla terra, agricoltore, e la madre dalla laguna, creatura d’acqua.


Quando era molto piccola sua madre soleva chiamarla col soprannome di mesquiza, che nel dialetto locale significava “dell’acqua salmastra” riferendosi giocosamente alla doppia natura che la bimba aveva in sé.


Le doleva il collo, ma non riusciva ancora a muoversi.


L’acqua salmastra non è acqua che si muove: è il punto dove l’acqua dei torrenti e dei fiumi raggiunge il mare, e crea delle pozze di una soluzione che tende a rimanere immobile nella sua zona.

Questo la donna lo sapeva, ma all’improvviso ne realizzò il simbolismo.

Sua madre ci aveva visto lungo.


Tutto questo pensare, questo pensare costante: certo dava i suoi frutti.

Le permetteva accesso a strati più profondi, forse ad una maggiore comprensione di alcune aspetti delle cose.

Ma anche più confusione.

Dietro una domanda non trovava mai una risposta, ma altre dieci domande, in un ciclo continuo di discesa nel significato, sino a quando pure quello era smarrito, svuotato. Saturato semanticamente.


E buon dio, quanto si espandeva quella saturazione!

Arrivava ad inondare e a seppellire sotto una lucida coltre di confusione tutto quello che toccava, lasciando solo uno specchio dove la donna guardava la sua figura riflessa senza più riconoscersi, come un Narciso amnesico.


Pensare, pensare, pensare, senza mai una azione.


Senza una carne per quei pensieri, senza concludere la loro forma in qualcosa di concreto, che indirizzasse ed esaurisse la loro energia, come è in Natura, nell’economia dell’esistere.


Inattiva, immobile: come l’acqua salmastra.


Cercò di raddrizzare la schiena, che era diventata dura.

Ma non riusciva a muoversi.

Continuava a guardare la campagna ormai nera, un dipinto di bitume a pennellate libere.

Astratta pure quella.

Irraggiungibile.

Diafana e incomprensibile, come la donna percepiva la profonda realtà delle cose.

Senza senso, senza un perché, senza un ordine.

Nessuna logica.

Nessun appiglio.

Nessuna possibilità di agire.

Come orientare qualsiasi azione in tanta insensatezza?

Era meglio rimanere immobili: un atto di protesta, secondo lei, ma anche la risposta più legittima all’assurdità dell’essere vivi.


Si accesero le luci nella cabina.

Gli occhi della donna, fissi sulla nera campagna ridotta ormai un guazzabuglio di segni, ci impiegarono qualche minuto ad abituarsi alla luminosità.


Per un attimo le sembrò che ciò che vedeva all’esterno fosse stato dipinto dal figlio impossibile di Twombly e Rothko.

Questo fu l’ultimo suo pensiero mentre, avendo recuperato la vista, notò i riflessi provenire dal vetro del finestrino dove si specchiava lei stessa.


Aveva notato, dapprima impercettibilmente, dalla distanza immane che separava la sua contemplazione interiore dall’esterno, dal reale, delle macchie bianche attorno alla sua sagoma.


Riflessi luminosi in tutto quel nero.


Cercò di metterli meglio a fuoco con gli occhi, non potendo muoversi all’indietro.

Li osservò per interminabili minuti senza capire cosa fossero.

Sembravano piccoli batuffoli di cotone, ma avevano una forma più definita.

Col passare dei minuti si rese conto che alla base di ciascuno di essi partiva una piccola riga scura, nodosa.

Percorrendo una di esse con lo sguardo, notò che mano a mano che scendevano verso il centro, il diametro della riga si ispessiva.

Percepì, laddove dovrebbe esserci stata la sua ombra, una sorta di rugosità indistinta, grigiastra.

Non riusciva a capire cosa stesse vedendo.


Cercava il riflesso del suo viso, dei suoi abiti, ma non lo trovava.

Al suo posto c’era questa cosa organica, indecifrabile.

Ma dov’era lei? Non si trovava.


Con uno sforzo immane, puntando il gomito sul poggiolo del sedile, cercò di spingersi un pò più distante dal vetro, per mettere vedere meglio quanto stesse osservando.


Ottenne, con immensa fatica, un movimento di qualche centimetro.

E vide che quella cosa riflessa si allontanava dal vetro della stessa distanza e con lo stesso sforzo da lei profuso.


Una grande agitazione calò su di lei in un istante: quella cosa non stava fuori.

Era il riflesso proveniente da un oggetto all’interno dalla cabina.

La distanza ottenuta le permise di analizzare meglio quanto stesse vedendo: rimase ad osservare.



Quelle forme le erano familiari, ma non si ricordava dove le avesse già viste.

Rimase così per un lasso di tempo interminabile, a guardare.


Poi, fulminea e vertiginosa, fu colta dall’illuminazione.

Vide distintamente formarsi, in ognuno dei batuffoli bianchi, la forma di petali.

Riconobbe le linee nodose per quello che erano: rami.

Osservò il centro di quella che avrebbe dovuto essere la sua figura, non vedendoci altro che un tronco, e non il suo torso.


Sognava? Allucinava?


Avrebbe voluto alzarsi di scatto, saltare via da quella realizzazione, provare a se stessa che poteva ancora muoversi.

Avrebbe voluto, ora, realizzando l’assurdità di quanto era accaduto, tornare indietro.


Smettere di rimanere immobile, tornare ad agire sull’esistere, sul cambiare le cose, le situazioni.

Avrebbe voluto rinunciare all’immobilità che l’aveva sempre accompagnata.


Invece quell’eterno pensare senza soluzione, senza azione, era cresciuto dal suo interiore come un seme, alimentato da anni di immobilità, sino a prendersi pure la sua carne, trasformandola in altro.


Cercando di ascoltare i limiti della sua figura, sentì che i suoi piedi non erano più gli stessi, ed afferravano il pavimento con una forza sovrumana.

Sentì la rigidità nelle gambe, nelle braccia, e spostando la sua attenzione sull’epidermide, sentì che non era più liscia e sottile come l’aveva sempre percepita, bensì spessa, rigida, come fosse...corteccia?


Trovò ironico e crudele che il fato avesse scelto per lei una forma così elegante e positiva, estetica, romantica. Una sorta di irrisione, forse.


Ci volle ancora qualche istante, per intendere.


Sgomenta, atterrita, strabiliata, capì all’improvviso che quello che stava vedendo era il riflesso della sua nuova forma, una manifestazione esterna del suo interiore.


La forma segue la funzione, dopotutto.


Un albero di magnolia di forma vagamente antropomorfa stava seduto – sì, seduto!- laddove il suo corpo avrebbe dovuto trovarsi.



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On repeat:















domenica 9 febbraio 2025

Essere e Artista

No, non mi ci metto nemmeno.

Non è che volessi tirare in ballo Heidegger ma un piccolo omaggio glielo si fa sempre volentieri (Martino tvb <3).

Veniamo ordunque a noi.

Il mio primo insegnante di Pittura soleva ricordarci, ammonendoci, che un artista è tale 24 ore su 24.

Un arista pensa come un artista, parla come un artista, mangia come un artista, vede come un artista, etc, etc.
Insomma un artista deve essere un artista, a priori, ontologicamente parlando, prima di fare l’artista.

Sacrosante parole! Banali quanto vere come quasi tutte le cose sagge.

Ebbene, per quanto grazioso possa essere l'essere artisti, con tutti i suoi divertissement, le sue stranezze, le sue golosità intellettuali e sensorie, quando uno ha la vocazione per davvero si trova di fronte ad una certa incapacità di vivere la vita passivamente.
O meglio, di vivere una prospettiva di accettazione: ci deve mettere mano, mescolare, scolpire, modellare.

L'artista ha un animo bastardo, testardo, cocciuto e strafottente.
L'artista deve creare.
Deve manipolare, deve controllare, deve plasmare ogni cosa della sua esistenza come se egli stesso fosse il creatore della realtà. E’ un bisogno primario, un modo intrinseco della sua anima, l’unico modo che egli conosce per vivere.

Volontà di potenza, diceva il nostro caro Federico N. (direttamente dal gruppo in incognito dei Filosofi Anonimi) - ecco, l'artista ne trabocca.
Intesa sia in senso proprio, come "
meccanismo del desiderio nel suo stesso funzionamento incessante: il desiderio vuole continuamente e senza sosta il suo stesso accrescimento, dato che il desiderio è pulsione infinita di rinnovamento", sia come la volontà di potere, cioè di influenzare e manifestare agenzia sulle cose e sul mondo.



Ah, le lotte.
Le battaglie di sangue, i momenti di disperazione, il dolce torturarsi nelle croci del mestiere, la delizia della dialogo schizofrenico e bipolare, maniaco e atarassico che accompagna le giornate dell'Artista. 
Il travaglio interiore, la sofferenza del non riuscire, l'esigenza dolorosa del possedere la realtà, del conquistarla, del riplasmarla secondo la propria volontà e visione.

La fulgida bianca fiamma dell’ispirazione, che colpisce come la freccia di Eros, che solleva, che inonda di dopamina, che ruba i sogni alla notte e infesta i giorni di visioni.



Perchè se tutti hanno un angelo custode e un diavolo sulle proprie spalle, l'artista è abitato, posseduto, da un Daimon e da un Demiurgo.

Archetipi questi, che sono il centro dell'attitudine artistica in un'anima - e come tutte le cose numinose, hanno anche dei lati nefasti.

Prima Socrate, poi Platone e Aristotele, si sono avvicendati nel dare una carne a questo concetto primigenio, autoctono dell'animo umano. Socrate individua il seme della propria coscienza, che gli suggerisce come comportarsi in modo etico e morale, nella voce superiore del Daimon, essere semidivino e nume tutelare; secondo Platone, prima di nascere noi scegliamo il nostro destino, ossia la missione che svolgeremo sulla Terra, nonchè un Daimon, il quale ci ricordi e ci guidi attraverso la nostra vita verso il raggiungimento del nostro scopo: il Daimon è pertanto voce della nostra coscienza, la vocazione, e il "portatore del destino". 

Nel tempo la figura del Daimon viene rivisitata e arricchita di diversi ruoli e significati attraverso la sua rilettura dai discepoli di Platone, come Senocrate - che introduce la dualità nella figura del Daimon (essere dapprima benigno-neutro e ora in possesso anche di attributi negativi o nocivi), passando poi attraverso Neoplatonismo e Stoicismo sino ad arrivare al Cristianesimo, che essendo sempre ottimista e costruttivo decide di connotare alla parola Daimon una prerogativa esclusivamente negativa, da cui infatti deriva il Demone, lo Shaitan, il Nemico. Il Diavolo insomma.

C'è da dire che sotto soglia buona parte di questo lavoro di traslazione di significato è stato operato dallo Gnosticismo, che con il suo sincretismo ontologico ha attinto, nei secoli di passaggio tra la cultura ellenica e quella romana, non solo dalle stesse ma anche da mitologie locali tra cui religioni misteriche, culti agresti e ctoni, ebraismo, neoplatonismo, cristianesimo, zoroastrismo, zurvanismo.

Nella esegesi gnostica, dove ciò che porta alla salvezza è la conoscenza esoterica, il Daimon è spesso associato agli Arconti, servitori del Demiurgo nella sua missione di intrappolare l'Uomo nel mondo materiale.

Il Demiurgo (parola che significa artigiano, creatore), a sua volta, è il grande artigiano, il costruttore della realtà fisica opposto alla Monade o Padre, il vero Dio, che invece emana energia creativa e spirituale, ed è assolutamente Buono: il Demiurgo interviene materialmente sul mondo, in quanto ha solamente il potere di plasmare materia già esistente, il Padre emana energia creativa con la quale origina gli Eoni, simboli a loro volta delle alte qualità spirituali e intellettuali. 
 

Per fare un piccolo passo indietro, è interessante notare che nel Simposio di Platone, dove si racconta la nascita di Eros da Poros (pieno di risorse, ingegnoso, abbondante) e Penia (miseria, mancanza, ma anche bisogno), il "dio" dell'amore non è descritto come divinità ma come "grande daimōn". Il Daimon, per Platone, è un entità sospesa tra il divino e il mortale, che funge da messaggera tra la dimensione divina e quella umana.

L’allegoria dicotomica di Eros rende evidente come la condizione di innamoramento è determinata al contempo da una grande abbondanza e da una profonda mancanza.
Direi che si può facilmente vedere come la coesistenza di queste due situazioni interiori si possa sovrapporre ai due principi etologici che secondo Maccacaro sono il principio originante di ogni attività animale, la fase appetitiva e la fase consummatoria, ossia la tensione tra desiderio e realizzazione, dinamica di scaturigine del processo creativo.

E cosa sono infatti l'amore, l'ispirazione intellettuale o artistica, se non una sorta premonizione dell'inesplicabile? Frammenti di qualcosa d'altro, di misterioso, che ci capita di percepire (o di subire, o di soffrire, e chi più ne ha più ne metta)? 

"È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili. Solo allora la vita è completa", affermava Jung.

La figura del Demiurgo, invece, solo ingannevolmente sovrapponibile nella sua quiddità a quella del Daimon, viene descritta nel Timeo dal nostro caro amiiiiico (da leggersi in falsetto) Platone come volontà ordinatoria: all’inizio il mondo non era altro che materia informe, ossia chora - o necessità. 
Il Demiurgo, essere semidivino e benigno, plasmò da questo bisognoso disordine delle forme ordinate, per farla assomigliare al modello perfetto dell'Iperuranio.
Ma nello Gnosticismo il Demiurgo diventa una entità maligna arrogante – perché vuole sostituirsi all’unico Dio-, ignorante – perché non sa di essere un sottoposto all’unico Dio-, che crea il mondo materiale per illudere e imprigionare le anime.

Lo gnosticismo basa fortemente i suoi principi creativi sul manicheismo, ossia la dualità polare maschio-femmina della facoltà generativa. Sophia e Cristo sono Eoni, come dicevamo sopra, pertanto emanazioni dirette della Monade. Essi incarnano rispettivamente il concetto di idea, di sapienza, e di logos, parola. Tecnicamente i due, che sono fratelli, erano anche sposi e avrebbero dovuto generare insieme. Invece Sophia, che godeva di una certa autonomia rispetto agli altri Eoni, da brava femminista disse: "sai che c'è? io mi basto da sola e l'utero è mio".
Così emanò
a sua volta il Demiurgo – un essere che non avrebbe dovuto essere! - senza chiedere il permesso a nessuno (tantomeno al padre biologico o al...nonno? Uno nel contemporaneo si dibatte sui temi della famiglia e di cosa la costituisce, ma anvedi un po' che nell'antichità a quanto pare il problema manco si poneva).


Perciò abbiamo una
sapienza che genera una competenza senza passare dalla parola.
Insomma, il Demiurgo rappresenta anche
la disobbedienza, le facoltà innate non vocalizzabili, in quanto egli nasce senza logos, direttamente dalla sapienza, e immediatamente si fa mediatore del noumeno al fenomeno.


Dopo questa lunga digressione, come cuciamo insieme tutti questi ingredienti di filosofia, di archetipi, di simboli, di allegoria, in una bella zuppa condita con la salsina magica dei miei pensieri ?

Col fuoco dell'Artista, ovvio. Basta guardare alle loro biografie.

Wittkower, fra i tanti, in Nati sotto Saturno raccoglie diverse testimonianze storiche sulle stranezze, le manie e i disagi di diversi artisti; ma anche sulle loro prodigiose facoltà e l’assoluta dedizione.

Artista divorato e ispirato da Daimon e Demiurgo, che lo abitano, lo muovono, lo costringono a cercare la mediazione tra il regno delle idee, e quello fisico, tangibile.

Arista innamorato, mosso dal sentimento che ha dentro, questo Eros allo stesso tempo spirituale e corporeo, fatto di nostalgia e desiderio, che cammina in equilibrio tra i poli che lo hanno generato - la capacità di attingere alle risorse interiori ed esteriori, ma anche la sensazione di mancanza di qualcosa, il bisogno di crearlo.

Artista disperato, che patisce la fame di un nuovo ordine. Che non può rinunciare alla sua agenzia nel quotidiano, nelle piccole cose. 

Artista affamato, che divora simboli del subconscio e del superliminale sia personali che collettivi per svelare o creare misteri, che scava nella cultura in tutte le sue declinazioni: popolare, folcloristica, artigianale, sapienziale, matematica, tecnologica, tecnica, di basso livello, tutte.

Artista come Prometeo, che porta agli uomini la luce del Creatore, che viola i patti, disconosce l'ordine superiore incontestabile, rigido e autoritario, per crearne un di comunitario, dove tutti possano entrare e riconoscersi, dove tutti possano collaborare alla creazione del senso.

Artista ribelle, che prende la Sapienza divina e la manifesta fisicamente, usando una saggezza intraducibile in parole (migliore definizione del fare arte io non la trovo). 

Arista messaggero, intermediario, comunicatore. 

 

Artista che poi nel quotidiano, fatto com’è, ponte tra divino e umano come il Daimon, imperfetto come il Demiurgo, fatica a non poter plasmare anche gli eventi della sua vita a piacimento - non è che una questione estetica, e pertanto, profondamente etica.

Ecco, l'Artista è tutte queste cose. 

Tanto gode quanto soffre, perennemente stimolato dall'amore per il suo bisogno e le limitazioni materiali, animato dall’impulso di creare a tutti i costi, che lo lacera, lo pungola, gli ruba il sonno e la fame. Non può mentirsi se non per dire una verità Altra, e non trova soddisfazione mai perchè il lavoro creativo non ha una fine o un fine.

Perciò io il motivo per cui il mio insegnante insistesse tanto su quella frase non l'ho mai capito: un artista non può che essere un artista.

Perchè altrimenti, semplicemente, non sarebbe.




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